Alessandro Ferrero della Marmora nacque a Torino il 27 marzo 1799, alle 9,30 del mattino, dal Marchese Celestino, capitano nel Reggimento di Ivrea e dalla contessa Raffaella Argentero di Bersezio.
Nel 1809, a dieci anni, veniva nominato paggio del principe Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, Governatore del Piemonte.
Fu quindi educato ed istruito a Palazzo Chiablese, sotto la guida del conte Provana, dimostrando interesse spiccato per le scienze matematiche e fisiche.
Con la Restaurazione e il ritorno dei Savoia in Piemonte, Vittorio Emanuele I lo nominò, il 28 luglio 1814, sottotenente soprannumerario nel reggimento Guardie e servì agli ordini del colonnello Del Borgo e del fratello Alberto.
L’8 maggio 1815 veniva nominato sottotenente effettivo.
Nella bella e numerosa famiglia (come appare nel dipinto dell’Ayres) Alessandro era l’ottavo di tredici figli; ben sette fratelli abbracciarono la carriera delle armi: quattro furono generali e due furono insigniti dell’Ordine dell’Annunziata, Carlo Emanuele ed Alfonso della Marmora.
Con i "Cento Giorni" e il ritorno di Napoleone dall’Elba, le truppe piemontesi furono mandate in Savoia e posero l’assedio a Grenoble.
Alessandro apparteneva ad un reparto che non doveva entrare in combattimento, ma riuscì a brigare fintanto che ottenne di sostituire un vecchio porta bandiera di nome Pagliano e il nome di Pagliano gli rimase per sempre fra i militari.
La sua divisione arrivò a Grenoble il 10 luglio e fu impiegata in un modesto scontro e qui ebbe un incidente di caccia che gli procurò temporanei danni alla vista e l’amputazione della falange di un dito.
La divisione si diresse poi verso Voreppe, sulla via di Lione, ma la battaglia di Waterloo pose fine al conflitto e alle sue speranze di gloria.
Nell’aprile del 1816 venne nominato sottotenente nei Granatieri Scelti e nel 1817 gli venne conferito il grado di luogotenente d’ordinanza sempre nei granatieri.
Carlo Felice gli conferì il 19 gennaio 1822 l’ ”Abito e Croce di Giustizia della Sacra Religione dell’Ordine Militare dei Santi Maurizio e Lazzaro”.
Nel 1823, il 23 febbraio, veniva promosso capitano di categoria permanente.
Dopo i fatti del 1821 e la battaglia di Novara, La Marmora si dedicò a studi di carattere militare e topografico.
Viaggiò in Francia, in Inghilterra, in Svizzera, in Tirolo, al fine di procurarsi notizie sugli eserciti degli altri stati.
Esperto di balistica, attrezzò addirittura un’officina in casa propria per sperimentare armi e munizioni.
Veniva intanto elaborando un piano per riformare le truppe di fanteria.
Nel 1831 presentò al ministro della Guerra una proposta per la costituzione di una Compagnia di Bersaglieri, armata con una carabina da lui stesso ideata.
Per ragioni politiche e di bilancio la proposta non fu presa in considerazione.
Presenterà una nuova proposta nel 1835 e questa volta Carlo Alberto la prenderà in considerazione decretando, il 18 giugno 1836, la nascita del Corpo dei Bersaglieri.
Particolare cura era riservata all’educazione fisica con esercitazioni collettive in cui corsa e passo rapido erano andature normali anche in caserma, con frequenti esercitazioni di tiro, scherma di baionetta e di bastone, marce a tappe forzate.
La Marmora dovette vincere parecchie opposizioni non ultima quella del ministro della Guerra Villamarina.
Nel frattempo, il 29 dicembre 1835, ottenne il grado di maggiore dei granatieri.
Il 30 gennaio 1836, finalmente, la divisione di fanteria del ministero di Guerra e Marina presentava al re una relazione nella quale venivano dettate le norme generali secondo le quali sarebbe stato possibile creare un corpo di bersaglieri.
Il 18 giugno 1836 Carlo Alberto con il regio brevetto numero 138 “instituisce nell’Armata un Corpo di Bersaglieri; ne determina la composizione, la forza, il servizio, e l’instruzione, il corredo, l’armamento, le paghe, ed i diversi altri benefizi”.
Il 30 gennaio 1840 il re promosse La Marmora luogotenente colonnello e lo confermò comandante del Corpo.
Il 9 aprile 1844 veniva promosso colonnello.
L’8 aprile 1848, durante la prima guerra per l’indipendenza italiana presso il ponte di Goito La Marmora portò sul fronte i suoi Bersaglieri per il loro battesimo del fuoco.
In quella data le avanguardie piemontesi giungono a Goito e devono occuparla. Il ponte che divide la città da una borgata situata sulla riva opposta è stato minato.
I bersaglieri attaccano per primi su due colonne: quella del capitano Lyons e quella del capitano Muscas, rinforzate da un reparto delle Real Navi e da un plotone di cavalleria.
La Marmora stesso comanda l’attacco al ponte che deve favorire l’aggiramento della città e portare l’offensiva su due fronti. Mentre cavalca alla testa dei suoi uomini è colpito da un proiettile che gli fracassa la mandibola e lo ferisce al collo. Cade da cavallo. Un ufficiale austriaco cerca di catturarlo, ma La Marmora lo uccide con un colpo di sciabola.
Nel frattempo il ponte salta. I bersaglieri non si perdono d’animo e riescono comunque a lanciarsi sull’arcata del ponte rimasta intatta.
Il primo a slanciarsi sulla spalletta è il bersagliere Gasconi di Stradella, seguito dal sottotenente Galli della Mantica che, colpito in pieno petto, cade nel Mincio, primo ufficiale morto per l’indipendenza italiana.
Dopo un attimo di sbandamento, il capitano Zaverio Griffini, comandante della Legione Volontari Lombardi, riesce a raggiungere la riva opposta e, con l’aiuto di alcuni compagni, fa prigionieri cinquantatre avversari e si impossessa di un cannone.
Sarà premiato con la medaglia d’oro al valor militare, primo nell’esercito a ricevere tale ricompensa.
Il generale Bava annotava compiaciuto: “Questo primo e splendido fatto contro le migliori truppe austriache, poiché si trattava di circa mille dugento fanti tutti Tirolesi e sessanta cavalieri, condusse in nostro potere cento prigionieri ed un cannone, e soddisfece pienamente a S. M., che pochi giorni dopo degnavasi venire in persona a premiare sul luogo i valorosi che più distinti si erano” .
Tutti gli ufficiali ed un furiere dei bersaglieri presenti al fuoco vennero promossi di grado. La Marmora sarà poi decorato con la croce mauriziana.
La sera del fatto d’armi, il fratello di La Marmora, Carlo Emanuele generale e aiutante di campo di Carlo Alberto, si reca a visitare Alessandro che era subito stato trasportato a Casa Piccioni a Bozzolo, nei pressi di Goito.
Lo trova grave, ma non in pericolo di vita. La palla, entrata dal mento, ha fracassato la mandibola destra ed è uscita sotto l’orecchio, asportandogli parecchi denti.
Per lungo tempo sarà costretto a portare uno speciale apparecchio di ferro.
Durante il forzato riposo scrisse le "Istruzioni provvisorie per i Bersaglieri" e un "Trattato di tiro ad uso dei volontari".
I suoi uomini intanto combattono valorosamente a Pastrengo e a Santa Lucia, a Peschiera e a Governolo, dove furono protagonisti di un audace colpo di mano per la conquista del ponte.
Il 27 luglio Alessandro La Marmora venne nominato maggior generale.
Il 9 agosto il generale Salasco firmava l’armistizio che concludeva la prima fase della guerra.
Il 15 febbraio 19249 La Marmora è stato nominato Capo di Stato Maggiore Generale ed ha iniziato i preparativi per l’offensiva organizzando cinque battaglioni di bersaglieri e due di volontari.
Nel 1849, il 20 marzo, Carlo Alberto rompe l’armistizio con l’Austria e riprende la guerra.
Alla fine di quella guerra durata tre giorni, a Mortara, la sera del 22 marzo, quando ormai non c’è più nulla da fare, La Marmora raccoglie 400 uomini della brigata Regina e muove verso il ponte dell’Arbogna per cercare di fermare l’avanzata nemica e mentre incalza con il solito coraggio gli Austriaci perde due cavalli sotto di sé.
Da Mortara passa a Novara dove il 23 si svolge la famosa battaglia in cui sono impegnati tre battaglioni di bersaglieri che compiono prodigi di valore alla Bicocca e alla Cascina Forzate, dove cade eroicamente il generale Ettore Perrone di S. Martino, mentre alla Cascina Castellazzo cade il sottotenente Radicati di Brozolo.
La Marmora raccoglie i resti della seconda divisione e li guida personalmente alle mura della città per impedirne l’accesso al nemico. Entrata la colonna da porta Mortara vuole darle il tempo di disporsi sugli spalti. A cavallo, rivolto verso gli Austriaci, con due sole ordinanze si colloca al ponte fuori porta e aspetta i nemici che vedendo un generale in quella posizione lo credono a capo di molti uomini e tergiversano incerti.
Egli può così far guadagnare tempo ai suoi per una prima resistenza; poi volta il cavallo e scompare con le ordinanze.
Per la condotta tenuta a Mortara e a Novara avrà la medaglia d’argento al valor militare.
Con l’armistizio di Vignale che pone fine alle ostilità non cessano gli impegni. Poco dopo Novara scoppia a Genova un moto insurrezionale che chiede la scissione dal Piemonte e un governo repubblicano. In realtà le prime avvisaglie si erano avute subito dopo l’armistizio di Salasco nel 1848, quando su Genova erano confluiti gruppi di repubblicani, mazziniani e rivoluzionari e quando i vari sovrani degli stati italiani avevano ritirato le truppe inviate in appoggio a Carlo Alberto. Il fratello Alfonso sarà mandato dal Gioberti, allora presidente del Consiglio, ai confini della Toscana per agevolare il ritorno del granduca Leopoldo II dall’esilio e per sedare la rivolta. Egli pose il suo quartier generale a Sarzana, ma fu raggiunto dalla notizia che il ministero Gioberti era caduto. All’aprirsi delle ostilità nel 1849, riceveva l’ordine di marciare per Pontremoli su Parma con la sua sola divisione.A Parma sarà raggiunto da una lettera di Alessandro, da Momo, del 25 marzo 1849, con cui lo informa del disastro di Novara: “Tutto è perduto. Non ho tempo a darti minuti ragguagli. Ramorino cominciò per non obbedire e invece di occupare la forte posizione della Cava come gli veniva ordinato, se ne rimase colla maggior parte delle sue truppe sulla destra del Po. Egli sarà processato. È probabile che abbia preso denaro per tradire”.Nel frattempo Alfonso, il 28 marzo, ebbe l’ordine di muovere su Genova. Per strada gli arrivò la nomina a Commissario Straordinario della città di Genova con quella di luogotenente generale. La Marmora precede il grosso della spedizione con due compagnie di bersaglieri e un plotone di cavalleria. Il 3 marzo stabilsce il suo quartier generale a Pontedecimo. Prima di attaccare la città concepisce il disegno di occupare i forti che la circondano. L’impresa, condotta con celerità, riesce, ma la divisione è ancora lontana e i rivoltosi si stanno riorganizzando. La situazione sta diventando critica. La Marmora tenta di venire a trattative, ma non risolve molto. Fortunatamente giunge volontariamente il fratello Alessandro, avvisato a Pontedecimo. Scrive Alfonso nella sua Relazione: “In questi frangenti giungeva mio fratello, il capo dello stato maggiore dell’esercito, il quale arrivato da pochi momenti a Pontedecimo, uditovi l’esito del mio colpo di mano, accorreva in tutta fretta, prevedendo la posizione delicata in cui mi trovavo, per causa delle poche truppe che avevo con me. Io mi valsi del suo nome e della sua autorità ed influenza onde mantenere fermi d’animo i Bersaglieri di cui fu il fondatore. Imperocché costoro, venuti da San Quirico il mattino, dopo aver combattuto da più ore senza aver ricevuto cibo, o ristoro di sorta, moltiplicandosi colla celerità, facendo fronte da ogni parte, cominciavano a sentir la stanchezza ed a riconoscere la difficoltà dell’impresa. Ciò nullameno, rincorati dalla vista e dalla voce dell’antico loro Capo, continuarono a difendere tutta la linea occupata, contro i vari e disordinati sforzi degl’insorti, i quali raccolti a gruppi nelle case e viottoli, che dalla cinta conducono in città, mantenevano vivo il fuoco. Giunse frattanto una terza compagnia di Bersaglieri, e questo soccorso valse a rinvigorire tutti d’animo”.A sera arrivò finalmente il grosso della divisione. Osserva La Marmora: “Le truppe cucinarono in quella notte il rancio che non avevano potuto mangiare nel giorno, e riposarono alla meglio”.Il giorno dopo, 5 aprile, Alfonso marciava su Genova con l’esercito disposto su tre colonne precedute da bersaglieri e, dopo alcune ore di combattimento, riuscì ad occupare la città e a riportare la calma. Alle cinque del pomeriggio, come disse egli stesso, poteva considerarsi “padrone della città”. Il 6 aprile La Marmora concederà ad una deputazione di cittadini di recarsi a Torino “onde ricorrere direttamente alla clemenza sovrana” e vennero sospese le ostilità per quarantotto ore. La città si arrende ed incominciano ad arrivare le truppe richieste per presidiarla. Il giorno 11 La Marmora poteva farvi ingresso con le sue truppe, accolto molto freddamente dai genovesi. Il 2 novembre 1849 Alfonso diventerà ministro di Guerra e Marina e Alessandro ne prenderà il posto al Comando della divisione di Genova. Sarà promosso tenente generale nel 1852, mantenendo lo stesso comando. A Genova, tra le altre incombenze, pensa costantemente alla riorganizzazione di Corpo. Già dal settembre 1849 aveva presentato una Relazione in tal senso. L’allora ministro Bava ne aveva ridotto gli effettivi. Alfonso La Marmora ne autorizzerà l’aumento a dieci battaglioni. A Genova Alessandro creerà una Scuola Centrale unitaria di grande valore per creare i comandanti e promuovere l’affiatamento tra gli ufficiali e tra questi e il Capo, formando quello spirito di Corpo che sarà la caratteristica principale dei bersaglieri. Creerà anche una scuola per il combattimento della fanteria.Nel 1854, il primo luglio, proprio a Genova, Alessandro convolerà a nozze con la nobildonna Rosa Roccatagliata, vedova di Domenico Rati Opizzoni.Si guadagnerà nel frattempo la stima e il rispetto della cittadinanza per il comportamento tenuto durante l’epidemia di colera scoppiata nell’estate che fece tremila morti fra la popolazione, centotrenta fra i soldati e ventidue fra gli ufficiali. Egli stesso si documenterà sulle cause, sugli effetti e sui rimedi della malattia e pubblicherà un opuscolo dal titolo Cholera morbus del 1854.L’anno dopo i Piemontesi prendono parte alla guerra in Crimea. Le ostilità, come è noto, ebbero inizio nel 1853 con l’invasione da parte della Russia dei principati danubiani, vassalli della Turchia. Nel 1854 la Francia e l’Inghilterra, preoccupate di impedire un eccessivo ingrandimento da parte della Russia, intervennero a fianco della Turchia per il mantenimento dello statu quo.Anche il Regno di Sardegna, per iniziativa di Cavour, intervenne nel 1855 in favore delle Potenze occidentali con un corpo di spedizione di 15.000 uomini il cui comando fu affidato ad Alfonso La Marmora.Il 14 aprile 1855 Vittorio Emanuele II distribuiva ad Alessandria le bandiere ai reggimenti che partivano per l’Oriente. Il corpo di spedizione, affinché tutto l’esercito sardo contribuisse alla sua formazione con “proporzionati contingenti”, fu costituito da “reggimenti provvisori” di fanteria, composti ciascuno da quattro battaglioni, prelevati da diversi reggimenti. Allo stesso modo si procedette con la cavalleria, il cui “reggimento provvisorio” venne formato con gli squadroni provenienti dai reggimenti regolari di cavalleria leggera, e per l’artiglieria, alla quale ogni brigata fornì una batteria, la prima di ogni brigata. Vennero formate così cinque brigate: la prima di riserva, mentre le altre formavano due divisioni. Ogni brigata consisteva di un “reggimento provvisorio” di quattro battaglioni, un battaglione di bersaglieri e una batteria di cannoni. Le divisioni erano comandate, la prima, dal generale Giovanni Durando, fratello di Giacomo, nominato ministro della Guerra al posto di Alfonso La Marmora, l’altra dal tenente generale Alessandro La Marmora, la seconda e la terza brigata (che componevano la prima divisione) erano comandate dai maggiori generali Manfredo Fanti ed Enrico Cialdini. I bersaglieri disposti in cinque battaglioni provvisori, tratti da due compagnie per ognuno dei dieci battaglioni effettivi, vennero posti a rinforzo delle brigate di fanteria. Gli imbarchi avvennero a Genova. Il 16 aprile La Marmora passò in rivista le truppe sulla spianata alla foce del Bisagno. La partenza fu funestata dall’incidente del Croesus una delle navi più grandi e moderne della flotta britannica che trasportava ingenti quantitativi di materiali e scorte. La partenza doveva avvenire il 21, ma fu ritardata al 24 per completare il carico. Era stato concertato che ogni nave a vapore dovesse rimorchiare una nave a vela per aumentare le dimensioni dei convogli, a scapito della velocità, e assicurare una maggiore regolarità di marcia non sottoposta all’instabilità dei venti. Il Pedestrian, la nave a vela che doveva essere trainata, sbagliò la manovra, anche a causa del forte vento, e investì violentemente il Croesus. I danni furono subito riparati e le navi salparono. Al largo di Camogli scoppiò però un incendio sul Croesus che lo distrusse quasi completamente e vennero persi del tutto viveri, attrezzature, cavalli, munizioni.Le prime navi partirono il 30 aprile con Alfonso La Marmora. Ai primi di maggio, poco meno della metà degli uomini del corpo di spedizione erano in mare. Le navi seguivano rotte diverse: alcune passavano al largo delle coste italiane per poi passare attraverso lo stretto di Messina e attraversare lo Jonio. Altre raggiungevano Malta, tenendosi più vicine alla Corsica e alla Sardegna e superando la punta occidentale della Sicilia. Tutte dovevano circumnavigare il Peloponneso, passando a sud di Capo Matapan, tagliare l’Egeo fino a Tenedos ed entrare nei Dardanelli. Alfonso, imbarcato a bordo del Governolo arrivò a Balaklava l’8 maggio. Là incontrò immediatamente i capi della spedizione: l’inglese Lord Raglan, il francese Canrobert, il turco Omar Pascià. Balaklava era una “topaia” come l’aveva chiamata Cavour. Quello che era un limpido specchio d’acqua era stato trasformato in una cloaca dai rifiuti lasciati da mesi da decine di migliaia di uomini cui si aggiungevano relitti vari e carogne di animali. La Marmora installò il suo quartier generale su una altura vicina a Kadikoi, la truppa si accampò a Karani.Alessandro La Marmora, dopo parecchie fatiche per la preparazione della sua divisione, lasciava Genova la sera del 19 maggio 1855. Riunì il suo stato maggiore al Palazzo Ducale sede del comando (46), e da lì si avviò al porto attraversando la città a piedi, accompagnato dalla moglie, e si imbarcò sulla Costituzione. Ricordava il suo aiutante di campo Emilio Borromeo: “Durante la traversata il Generale sempre affabile con tutti, si inquietava solo per l’ozio al quale era obbligato ed avrebbe voluto accelerare la marcia”.Il 28 maggio si arrivò a Balaklava e il 29 avvenne lo sbarco. Il Corpo era finalmente riunito. Si trattava di un esercito non molto grande, ma ben organizzato e ben armato che fece dire al generale francese Bosquet: “Vous avez là un bijou d’armée”. Scriveva nel suo Diario Margherita Provana di Collegno, in data 4 giugno: “I giornali inglesi sono pieni di corrispondenze dalla Crimea in cui si parla con caldissima ammirazione delle truppe sarde. I bersaglieri e la cavalleria piacciono particolarmente”.Nel frattempo il campo venne spostato. Mentre il quartier generale rimane a Kadikoi, venne sgomberata Karani, luogo infelicissimo. Francesi e Piemontesi occuparono la riva sinistra del fiume Cernaia. I Piemontesi sistemarono un nuovo accampamento a nord di Kamara. Stabilirono anche due avamposti sulla sponda destra del fiume.Quando i Piemontesi arrivarono in Crimea, in realtà le operazioni militari alleate erano già iniziate da un po’ di tempo. Lo sbarco alleato era avvenuto il 13 settembre 1854. già c’era stata la grande battaglia dell’ Alma il 20 settembre, che aveva aperto agli alleati la strada per Sebastopoli. Il 25 ottobre si era avuta l’infelice pagina di Balaklava. Il 17 ottobre erano iniziati i primi bombardamenti di Sebastopoli, bombardamenti che continuavano periodicamente anche dopo l’arrivo dei nostri.Attorno alla città erano state costruite grandiose opere d’assedio da parte degli alleati e, non di rado, i nostri ufficiali si recavano a visitarle. L’allora sottotenente Ricci, che diventò poi generale, scrive che erano “veramente qualchecosa di gigantesco. Figurati una ventina di chilometri di trincee, strade coperte, corridoi, sotterranei che s’incontrano, si tagliano, si attraversano, si sovrappongono in vario senso, e di tratto in tratto enormi batterie, ridotti, posti di guardia, magazzini interrati, lunghe file di feritoie ed altre cose simili”.Attorno alla città ferveva un lavoro continuo, incessante, di giorno e di notte. Di notte, poi, “il fuoco si fa spesso vivissimo e ciò proviene da questo, che le tenebre proteggendo meglio il lavoro, quando, per mezzo di palle luminose ed altri mezzi simili assedianti od assediati riescono a scoprirne o sospettarne la direzione, vi fanno subito convergere un fuoco rapido ed insistente. Non ti puoi immaginare come sia sinistro lo scroscio del cannoneggiamento che tutto ad un tratto viene ad interrompere il sonno e quale sia l’eccitamento nervoso che produce in noi non ancora avvezzi a questa lugubre musica notturna”.Ma per i Piemontesi il pericolo maggiore fu il colera. I primi casi nel nostro esercito si erano avuti alla fine di maggio. Pare addirittura che sulla nave Authion fosse morto quasi certamente di colera il cappellano Astengo. La notizia non fu però divulgata. Sulla malattia si avevano nozioni imprecise e non si sapeva come combatterla. In breve tempo si propagò in modo drammatico. Il 30 maggio si ebbero 46 casi; il 4 giugno i morti erano 226 e gli ammalati 530. I più colpiti furono i bersaglieri. Alessandro La Marmora che già si era prodigato a Genova contro il morbo, continuava i suoi studi anche in Crimea. Reduce da una ricognizione agli ospedali di Baidar, ma probabilmente già indisposto fin dal suo arrivo, ne venne colpito il 5 giugno. Assistito dall’aiutante di campo Emilio Borromeo, fu trasferito a Kadikoi presso il quartier generale di Alfonso La Marmora. Scrisse il Borromeo: “[...] il dottor Testa si sedette, nell’ambulanza, io a cavallo di fianco alla stessa. Si marciò adagio per diminuire le sofferenze dell’illustre ammalato, la voce di Lui non sentivasi che per ringraziare. A Kadikoi il Generale fu ricoverato in una casetta: tre stanzette – tre tugurii - su di un piccolo letto da campo ricoperto con coperte di cavalli e plaids”. Lo circondavano il fratello, il nipote Vittorio, ufficiale di Marina, il colonnello St. Pierre, comandante dei bersaglieri, il vecchio attendente Gaudenzio, bersagliere, il cappellano Cochetti, il dottor Comissetti. Spirò il 7 giugno 1855, alle ore 1,30, mentre era in pieno svolgimento il bombardamento di Sebastopoli da parte dei Francesi che si apprestavano ad attaccare la Collina Verde. Alle ore 10 del giorno stesso le spoglie di Alessandro La Marmora, avvolte in una coperta di lana, accolte in una modesta bara furono sepolte su di una collinetta quasi di fronte al villaggio di Kadikoi.